La meditazione

 

“Medita come se fosse un gioco, non come se fosse una cosa seria.

Quando entri nella sala di meditazione, lascia fuori il tuo viso serio.

Fa’ che la meditazione sia un divertimento.

‘Divertimento’ è una parola molto religiosa;

‘serietà’ è una parola estremamente irreligiosa.

Se vuoi raggiungere la mente originaria,

devi vivere una vita che non sia affatto seria ma sincera;

devi trasformare il tuo lavoro in gioco;

devi trasformare tutti i tuoi doveri in amore.”

(OSHO)

AnandSharani: Maestro, come faccio a non farmi travolgere dalle piccole e grandi difficoltà del quotidiano?

 

Osho: " (...) Ora le onde possono ancora essere presenti, ma non ti raggiungono. E a questo punto puoi vedere che non ti appartengono, si tratta solo di un conflitto in superficie, con qualcosa di estraneo. E, dal centro, quando guardi, piano piano vedi che il conflitto si acquieta. Lentamente ti rilassi, accetti il fatto che, ovviamente, se si alzasse un forte vento, le onde si leverebbero; ma non te ne preoccupi più, puoi perfino goderti le onde: in esse non c'è nulla di male. Il problema nasce perché anche tu sei in superficie, ed ecco che si alza un forte vento che ti sconquassa, e l'intero oceano impazzisce. E' ovvio che tu sia preoccupato, sei terrorizzato a morte: sei in pericolo. A ogni istante quelle onde possono scaraventarti fuori dalla tua barchetta, a ogni istante puoi morire. Che cosa potresti mai fare con la tua barchetta? Come puoi controllare la situazione? Se ti mettessi a lottare con le onde, verresti sconfitto. Lottare non servirebbe. Dovrai accettarle. Di fatto, solo se riesci ad accettare le onde e a lasciar andare la tua barchetta... per quanto piccola possa essere, lascia che assecondi le onde, non opporla al loro sciabordare, solo così non ci sarà pericolo. Le onde sono presenti, tu assecondale, semplicemente. Lasciati semplicemente scorrere con esse, non opporti: diventa parte di quelle onde. Allora affiorerà un'incredibile felicità. (...)".

tratto da Osho - Consapevolezza -

Si impara vivendo

 

Ogni momento è straordinario perché si crea dal nulla e non assomiglia a nessuno di quelli che l’ha preceduto o lo seguirà. È una questione di qualità, è sempre una questione di qualità. La qualità è incommensurabile. Nessun metro, nessun regolo, nessun microscopio può quantificarla. È contemporaneamente una e molteplice. La dolce frenesia che prende allo sbocciare di un nuovo amore non puoi tagliarla, misurarla, dividerla in parti. È qualità allo stato puro. È vera perché la si vive, punto e basta. Si può tentare di esprimerla riconoscendovi significati che un attimo prima non si credeva nemmeno di poter concepire. Eppure è lì. Non si sa da dove viene, né dove andrà a finire. È. (Quanta magia in questo verbo “Essere”!) Se sei d’accordo, proviamo a riconsiderare quanto dicevano gli antichi sapienti. Ti accorgerai che è semplice. Non solo è “semplice” da capire, a duemilaseicento anni di distanza, ma rappresenta un “modo semplice di pensare”, diretto, qualitativo. “Conosci te stesso”. Il nostro sguardo, generalmente, si rivolge verso l’esterno. Le conoscenze, dicevamo, sono considerate comunemente cose di cui “appropriarsi”, quasi si potessero tesaurizzare, rinchiudere in un forziere come monete. Ma dentro di te non ci sono cose da afferrare. Gli stessi pensieri vanno e vengono alla velocità della luce, sono evanescenti. Fermati un attimo. Considera cosa sei. Prova ad esprimere un concetto. Non ci riuscirai. Tu non sei concettualizzabile. Non sei una conoscenza da acquisire e da maneggiare per superare il compito in classe, per far bella figura o per andare all’università. Fermati. Cosa senti? Il respiro che entra ed esce dai polmoni, il cuore che batte, un grumo di sensazioni e sullo sfondo… silenzio. Questo è ciò che si intende per “percezione qualitativa”, conoscenza diretta, vita. Tutta la conoscenza di cui siamo capaci in quanto uomini e donne, a ben guardare, non è altro che vita consapevole d’esser vita, natura in divenire, appetito e percezione, puro movimento. Questa consapevolezza è cruciale: scuola, università, lavoro, riconoscimenti, ecc. sono in funzione di ciò che tu sei, sono in funzione della vita, non sono “la vita”. Qui è in gioco molto di più: il tuo benessere, in senso letterale, “essere bene”, stare bene con te stesso. Allora, forse avrai già compreso che la conoscenza è connessa indistricabilmente con la vita ed è, appunto, una questione di “essere” non di “avere”. Se hai compreso il senso del “conosci te stesso”, puoi rivolgere lo sguardo verso l’esterno, forte di tale consapevolezza. Continuerai semplicemente a vedere oggetti manipolabili, corpi che parlano, libri e quaderni da usare, una realtà complessa da imbrigliare in concetti, nozioni, formule? Oppure, con maggiore coerenza, riconoscerai in tutto ciò che ti circonda la stessa silenziosa vita che hai scoperto in te, che hai scoperto essere te! “Diventa quello che sei”. La conoscenza deve tradursi in un atto di volontà. Non è facile. Occorre superare gli ostacoli posti lungo il cammino dal tuo stesso pregiudizio, primo fra tutti l’attaccamento a quella mentalità di cui ragionavamo all’inizio: la quantità al posto della qualità, l’avere al posto dell’essere, il moderno al posto dell’antico. È necessario vincere il proprio orgoglio, la presunzione che ci sia un’unica ragione e che questa appartenga a te e ai tuoi simili.

 

Mettersi in discussione, darsi battaglia armati di spirito critico e non demordere mai. Non si diventa quello che si è veramente, senza sofferenza, senza una grande sofferenza. E pochi hanno il coraggio di affrontare questa prova lunga una vita. Nessuno vuole morire. Non basta una vita a preparare alla morte. Lo stesso vale per opinioni, pregiudizi, sentimenti radicati in noi. Non cedono facilmente. E sono nemici astuti. Si tratta, a ben guardare, di quel fascio di energie che comunemente chiamiamo “Io”. Per diventare quello che sei devi buttare a mare questo benedetto “Io”, mettere a tacere la sua voce impertinente! E, per giunta, devi farlo con dolcezza! “Non superare il tuo limite”. Essere sé stessi significa accettarsi per quello che si è, accettare i propri limiti. È questa la chiave della cosiddetta “felicità” (in greco eudaimonìa, eu-dàimon, demone benevolo, ossia l’esser posseduto da un buon demone). Il contrario del “giusto mezzo” è la hýbris (greco “superbia”, “tracotanza”), l’andare oltre i limiti imposti dalla natura a ciascun essere. È come guidare un’automobile: una vita ben vissuta richiede consapevolezza dei propri mezzi e molta prudenza. Semplicemente la cosa giusta al momento giusto. È importante ricordarsi di quel “nulla” da cui ogni attimo emerge per poi farvi ritorno, di quel silenzio infinito che si scorge sul fondo di sé stessi e che è, in ultima istanza, il vero Sé. In ogni fenomeno occorre onorare la dimensione del mistero, quel qualcosa di inconcepibile, inesprimibile, intangibile che tutto avvolge e di tutto rappresenta la vera ragione. È il “divino” a dar senso all’umano. Volersi sostituire al divino significa andare oltre il limite, fare del male a sé stessi, punirsi da soli. Tutto qui. Tante parole messe in fila una dopo l’altra per esprimere un pensiero “semplice”. Ma semplice non vuol dire “facile”. Conoscere è imparare ad essere davvero quel che si è. È semplice perché è immediato, alla portata di tutti. Gli animali, per esempio, ci riescono senza troppo sforzo. Per noi, spesso, è più facile essere complicati che semplici. Senza sforzo, senza disciplina, senza passione, la semplicità rimane soltanto un sogno che svapora col trascolorare della giovinezza nell’età adulta. Questo, per gli antichi, è il vero senso della conoscenza. La conoscenza non è separata dalla vita, anzi non è separata proprio da niente. È qualità semplice, universale, onnipresente ed onnicomprensiva. Non si impara sui libri, si impara vivendo.
 
Fonte: Francesco Dipalo
L'uomo illuminato
 
Voglio sia chiaro che il cosiddetto Risveglio – ciò a cui fa riferimento la corrente più metafisica dell’Alchimia – è la condizione naturale di un essere umano normale. Io vi elenco le caratteristiche dell’uomo risvegliato – che corrisponde all’uomo nr. 5 nel sistema della Quarta Via – e ditemi voi se sono gli attributi di un superuomo oppure di un individuo che svolge tranquillamente le sue funzioni di essere umano.
 
Caratteristiche dell’essere umano risvegliato:
1)    Non sente più una voce nella testa che gli dice continuamente cosa deve fare.
2)    La sua mente è silenziosa mentre passeggia o fa la doccia o guida l’automobile. In lui il sottofondo di pensieri vorticanti che balzano da un argomento all’altro senza alcun criterio è cessato.
3)    È sempre “presente a se stesso”, ossia non è mai distratto, ma si sente consapevole dentro il suo corpo di ogni azione che compie o di ogni parola che dice istante dopo istante.
4)    Non si sente giudicato dagli altri e quindi non giudica gli altri. Se qualcuno lo insulta o commette uno sgarbo nei suoi confronti lui non si offende, cioè l’insulto lo attraversa da parte a parte senza incontrare alcuna resistenza. Se non trattiene nulla, allora non si verifica attrito dentro di lui e dunque non c’è sofferenza.
 
5)    Non si lamenta. Questo significa che distingue fra ciò che gli va bene e ciò che non gli va bene, a volte dice sì e a volte dice no, ma dentro di sé non prova mai disappunto o fastidio. Non percepisce alcun evento come sbagliato in sé.
6)    Vive nel qui-e-ora. Dal momento che la sua mente è silenziosa non produce pensieri riguardo il passato o il futuro, non vive nei ricordi del passato o nelle fantasie verso il futuro, cioè paure, ansie o semplici fantasticherie. Il tempo psicologico collassa lasciando spazio a un eterno presente.
7)    Ha il Cuore aperto. Ama ciò che gli succede e le persone che incontra (anche se, per ovvi motivi, lo comunica apertamente solo a un’esigua percentuale di costoro).
8)    È sereno. Non vive di paure e affanni perché ovunque si trovi si sente sempre a casa, protetto, al sicuro, in quanto non esce mai dalla sua coscienza e qualunque cosa gli possa accadere accade solo perché lui inconsciamente la crea e gli è utile per la sua evoluzione come anima.
9)    Parla e agisce in considerazione esterna. Questo significa che sia in pubblico che in privato si muove sempre in funzione di ciò che è più utile per chi gli sta intorno, che sia un pubblico, il partner o i suoi figli. Non lo fa in maniera calcolata, ma semplicemente il suo nuovo stato fa sì che il suo comportamento non tenga più in conto la gratificazione del suo ego (non racconta più le cose per far vedere quanto vale) ma unicamente l’evoluzione di chi lo circonda e di lui stesso.
 
Adesso ditemi se un essere del genere è un supereroe oppure la rappresentazione di come dovrebbe essere un qualunque uomo senza patologie che incontriamo per strada e che conduce una vita appena normale. Eppure questo è il risultato di quell’Arte Sacra chiamata Alchimia e che è sempre stata riservata a studiosi di un certo calibro.
 
Certo, durante il percorso che vi porta a conseguire queste caratteristiche, la vostra vibrazione cambia ogni giorno e si verificano alcuni effetti collaterali: per esempio il vostro Magnetismo s’incrementa e acquisite sempre più carisma. Chi vi sta accanto percepisce – anche se inconsciamente – che siete in qualche modo speciali. Il non-giudizio rende più serene le persone che avete intorno, perché non devono stare continuamente sul chi va là. Il Cuore aperto vi rende irresistibili. Il fatto di vivere fuori dal tempo, nel qui-e-ora, vi rende affascinanti.
 
Tali sono i risultati di quest’“arte rovinosa e mendace”. Vale la pena gettarvisi. E un ottimo modo per operare consiste nel partire dai nove punti sopra elencati e lavorare su ognuno di essi; ossia utilizzare astutamente i risultati finali come tracce sicure per mettersi sul Cammino. Buon lavoro.
 
Salvatore Brizzi

Anandsharani intervista Osho

AnandSharani: Maestro, in questi giorni mi sembra di non essere mai abbastanza "giusta". Cosa posso fare?

Osho: " (...) Un illuminato è qualcuno che è riuscito a scivolare fuori dalla trappola della società, che ne ha riconosciuta l'assoluta assurdità. No, non puoi migliorare te stesso. E non sto dicendo che non ti possa accadere un miglioramento, ricorda! Dico che tu non puoi migliorare te stesso. Quando lascerai perdere il tentativo di migliorarti, la vita ti migliorerà. In quel rilassamento, in quell'accettazione di te stesso, la vita inizierà ad accarezzarti e a fluire attraverso di te. Quando non nutrirai più alcun rancore, alcun rimpianto, il tuo essere sboccerà, fiorirà. Pertanto, vorrei dirti: "Accetta te stesso, così come sei!". Ma so che questa è la cosa più difficile al mondo, perché va contro il tuo addestramento, la tua educazione, la tua cultura. Fin dalla prima infanzia ti hanno detto come dovresti essere: nessuno ti ha mai detto che vai bene così come sei (...) tutti hanno inserito nella tua mente un programma fondamentale: migliora te stesso. Dovunque tu sia, devi perseguire una meta superiore, non devi fermarti mai, devi lavorare per migliorarti, fino alla morte! Il mio insegnamento è semplice: non posporre la vita, non aspettare domani per vivere. Il domani non arriverà mai: vivi oggi! (...)".

tratto da Osho - Intimità - Edizioni Riza

Levitazione acustica

...quando il potere del suono vince la gravità

 

Fu Henry Kjellson, un ingegnere svedese costruttore d’aeroplani, a raccontare nel libro “The lost techniques”,  la strabiliante esperienza del Dr. Jale, un suo amico svedese che, avendo il privilegio di soggiornare in un lamastero tibetano, riuscì a documentare e filmare come i monaci riuscissero a sollevare massi pesantissimi e a spostarli a 250 metri d’altezza, utilizzando unicamente la levitazione acustica.

Vide con i suoi occhi un fenomeno che per le leggi fisiche del tempo non poteva esistere: col solo suono di tamburi e trombe, i monaci riuscivano a sollevare grosse pietre di pesi differenti dal suolo che, arrivate  a 250 metri più in alto,  con l’aiuto di alcuni yachs, venivano poi ricevute e sistemate da altri monaci. Evidentemente essi hanno sfruttato un’enorme fonte di energia sconosciuta, ma la scienza ufficiale tolse di mezzo i filmati che furono ufficialmente confiscati e secretati dalla società inglese per cui l’uomo lavorava e ancora oggi sembrano essersi volatilizzati.

Ma i tibetani non furono gli unici a conoscere anticamente la levitazione acustica: secondo alcune leggende arabe giunte sino a noi, gli antici Egizi facevano volare pietre spostandole con la sola forza del  pensiero e con il suono, lasciando così intendere che avrebbero potuto usare questo sistema per la costruzione di piramidi. 

D’altra parte, i sacerdoti egizi erano depositari delle “Parole del Potere”, insegnate dal dio Thot: se le parole venivano pronunciate correttamente, producevano un modello tridimensionale in risonanza con l’Etere, generando l’ effetto desiderato o un’ energia.

Forse la più interessante testimonianza della levitazione è ancora oggi presente nel villaggio indiano di Shivapur: nel cortile collocato all’esterno della moschea dedicata al Sufi Qamar Alì Dervish c’è una pietra cilindrica di oltre 60 kg ed ogni giorno, durante la preghiera, 11 fedeli la circondano mettendosi a ripetere il nome del Santo, fino a raggiungere una certa intensità acustica: a quel punto gli 11 uomini sollevano la pietra, utilizzando un solo dito ciascuno e, terminata la litania, fanno un rapido balzo all’indietro, per evitare di restar schiacciati dalla caduta a peso morto di essa.

Come non citare Walter Russel, che nel trentunesimo capitolo del libro “A new conceptof the Universe” spiega che l’Universo consiste interamente di onde in movimento e che qualunque teoria che non sia in grado di trovare un appropriato posto all’interno dell’onda, a causa di ciò non ha nessun’ altra collocazione  all’interno della Natura.

Parole sicure, dure, ma possono resistere indenni ad un esame? 

Dal lavoro di John Keely siamo portati a credere sia davvero così. Keely trascorse tutta la sua vita a studiare la forza cosmica misteriosa liberata dai suoi apparecchi, convinto che le vibrazioni del Cosmo producessero una forma di musica le cui ottave, opportunamente accordate, potessero liberare un’energia inesauribile.

Nell’Universo, dagli atomi alle galassie, tutto si trova in uno stato particolare di vibrazione.

Anche ogni singola parte del nostro corpo ha una vibrazione che deve essere armoniosa per  mantenerlo in salute; e le malattie si instaurano se viene alterata la frequenza vibratoria, naturalmente perfetta, di organi, tessuti e cellule che compongono il nostro corpo.

In questo sistema perfetto, i suoni hanno un ruolo fondamentale nel corpo umano e in tutto il Cosmo: se una vibrazione può far ammalare o guarire, ma anche rompere un vetro, probabilmente può anche sollevare un peso.

I suoi arcani meccanismi, dotati di sfere metalliche composte da oro, argento e platino, corni in ottone, canne d’organo e fili,  furono fatti funzionare sotto lo sguardo attonito di numerosi spettatori e studiati senza successo dai suoi contemporanei, che volevano ad ogni costo smascherare la frode dello scienziato.

L’enigma sotteso a secolari ricerche pare essersi quasi risolto.

Sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, è stato descritto un nuovo metodo di levitazione acustica in movimento, sviluppato da un team di ricercatori del Politecnico di Zurigo, capeggiato dall’italiano Daniele Foresti.

Come egli stesso spiega, la levitazione acustica, ossia l’utilizzo di onde sonore per mantenere in aria piccoli oggetti, esisteva già da diversi decenni,  ma si trattava di una levitazione statica, in cui gli oggetti vengono mantenuti in equilibro in un certo punto. Per farlo si sfrutta la pressione esercitata dalle onde acustiche e, variandone opportunamente l’intensità e la frequenza, in questo caso infrasuoni, è possibile far ‘galleggiare’ qualsiasi tipo di piccoli oggetti, anche liquidi.

Il ventinovenne ricercatore italiano, invece, nell’ambito del conseguimento del dottorato in Svizzera, ha avuto la sensazionale idea di utilizzare tanti levitatori, disponendoli uno accanto all’altro, per capire come far passare la ‘palla’ da uno all’altro e guidare così il movimento di un oggetto.

Proprio come in una chitarra, dove la forma fa praticamente tutto, poiché mantiene il controllo delle onde e la risonanza, il segreto del primo levitatore al mondo in grado di manipolare e muovere più oggetti contemporaneamente sta tutto nella sua geometria.

In cosa consiste nel dettaglio il suo metodo di levitazione acustica? Sfruttando le proprietà del suono, è possibile manipolare piccole quantità di oggetti solidi o muovere piccole quantità di liquidi, senza alcun tipo di contatto con altri strumenti, quindi evitando interazioni o contaminazioni .

Forza di gravità e tocco provocano deformazioni nei materiali che, seppur minime, possono compromettere la perfetta reazione chimica tra due liquidi o altri tipi di sostanze.

Lo strumento,  messo a punto nei laboratori svizzeri, permette di muovere oggetti con una sezione fino a 7 millimetri,  senza limiti di lunghezza ed è utilizzabile su qualsiasi tipo di materiale.

Il levitatore può muovere gocce di leghe metalliche fuse, che possono essere mescolate insieme per formare nuovi materiali oppure per l’incapsulamento del solido-liquido.

Alcuni esperimenti sono stati anche di tipo biologico, dimostrando i vantaggi della levitazione anche per la trasfezione del Dna, ossia inserendo parti di Dna all’interno delle cellule ed evitando alcune delle problematiche che insorgono con le tecniche tradizionali, con potenziali applicazioni  in campo chimico e farmaceutico.

Scienza, fisica, musica e medicina sono pertanto termini inscindibili e costantemente interconnessi.

 

 

Dall'articolo di Caterina Lenti

 

Carta dei Diritti Personali

  1. Tu solo hai il diritto di giudicare il tuo comportamento, i tuoi pensieri e le tue emozioni, e di assumerti la responsabilità di realizzarli, accettandone le conseguenze
  2. Tu hai il diritto di non offrire ragioni o scuse per giustificare il tuo comportamento
  3. Tu hai il diritto di giudicare se puoi assumerti la responsabilità di trovare soluzioni ai problemi degli altri
  4. Tu hai il diritto di cambiare la tua opinione
  5. Tu hai il diritto di sbagliare e di assumertene la responsabilità
  6. Tu hai il diritto di dire "non so"
  7. Tu hai il diritto di essere indipendente dalla benevolenza degli altri
  8. Tu hai il diritto di essere illogico nel prendere decisioni
  9. Tu hai il diritto di dire "non capisco"
  10. Tu hai il diritto di dire "non m'importa"

TU HAI IL DIRITTO DI DIRE "NO" SENZA SENTIRTI IN COLPA

 

News dalla fisica quantistica

 

Alcune scoperte della fisica quantistica, come l'esperimento della "doppia fenditura", ci hanno dato la possibilità di accorgerci che prima che intervenga un'osservazione tutte le possibilità coesistono in stati quantistici sovrapposti, invisibili. Prima che una qualunque cosa accada e divenga visibile, percepibile o misurabile, tutto è possibile, e soprattutto può ancora essere cambiato, a proprio favore o sfavore.

Si chiama collasso della funzione d'onda di Schrodinger che postula "prima che qualsiasi evento si manifesti nella realtà visibile, tutte le possibilità coesistono in stati quantistici sovrapposti. E' l'interazione/osservazione che determina il collasso della funzione d'onda e l'attuazione dell'unico evento che si rende visibile o misurabile". 

Il pensare, credere, immaginare di chi osserva influenza direttamente la densità di probabilità che ogni evento ha di materializzarsi nella realtà percepibile.

Quello che ognuno di noi quindi pensa, crede, immagina sul proprio futuro, produce inconsapevolmente degli intenti invisibili in anticipo sulla realtà manifesta, che iniziano ad interagire con quelli di ogni altra cosa esistente generando i "collassi di funzione d'onda" che generano il presente della realtà manifesta.

 

IMMAGINARE = IN ME MAGO AGERE

Ogni volta che immagini qualcosa del futuro,

bella o brutta che sia è ininfluente

fai agire, metti in azione

il Potere Magico che è in te

condizionando la realtà

a produrre gli eventi futuri che hai immaginato.


Pascal, Pensieri, 9

 

Quando si vuol rimproverare con utilità, e mostrare a un altro ch'egli si inganna, bisogna osservare da qual verso egli considera la cosa, perchè generalmente da quel verso lì essa è giusta, e riconoscergli questa verità, ma svelargli quell'altro verso da cui essa è falsa.

Ed egli si contenta di ciò, perchè vede che non si ingannava e che il suo difetto era soltanto di non vedere tutti i lati della questione.

 

L'amore che dà

 

Qualcuno diceva che le vere vittorie non sono quelle fatte di nuove conquiste, ma di nuovi occhi con cui vedere le cose che già ci appartengono e di un nuovo cuore con cui apprezzarle di più.

Alcune cose fanno rinascere, ma spesso bisogna rinascere per riuscire a coglierle ... 

E anche se, una volta colte, possono dare e togliere, è anche vero che nel togliere lasciano sempre qualcosa, un segno, una traccia.

Un giorno, quando starai battendo i piedi per ciò che ti avranno tolto, pensa a ciò che ti è rimasto e che può essere reinvestito.

Se possiedi qualcosa e te la portano via, d'improvviso non ce l'hai più.

Ma se doni qualcosa che hai, ecco che nessuno potrà più togliertela.

Per questo dicono che l'amore duri in eterno: non perchè non finisca mai, ma perchè, anche quando se sarà andato, avrai dato talmente tanto da farlo restare tuo. 

Dare è paradossalmente il modo più semplice per accumulare ricchezza, guadagnando qualcosa che non si svaluterà nel tempo e di cui la persona amata non sarà più in grado di privarsi, anche se lontana.

Più dai, più ti dai, più hai e più ti hai.

Dare diventerebbe la chiave di corrispondenza tra avere e essere: l'essenza dell'avere non sarebbe più l'avere stesso (se non hai nulla e non dai nulla, non sei nulla), ma l'essere (se non sei nulla, non dai nulla e non hai nulla). 

Tornare a sè è il primo passo per arrivare ad avere qualcosa, che ancora non ti appartiene e che a cui non appartiene nulla.

 

di Lucrezia Paci

 

"Il malinteso più comune è quello che dare significhi cedere qualcosa, essere privati, sacrificare. La gente arida sente il dare come un impoverimento. Per la persona attiva, invece, dare ha un senso completamente diverso: nello stesso dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Dare dà più gioia che ricevere, non perchè è privazione, ma perchè in quell'atto mi sento vivo. 

L'amore è soprattutto dare. Nel dare non posso fare a meno di portare qualcosa alla vita dell'altra persona e chi la riceve si riflette in essa e non si può evitare di ricevere ciò che le viene dato di ritorno.

Ciò significa che l'amore è una forza che produce amore."

 

Erich Fromm


DALLA PAURA ALLA FIDUCIA


"Non c'e niente di cui aver paura, se non la paura stessa" 

Franklin Roosevelt

 

La paura non esiste se non per indicarci che ci siamo fermati, o forse che siamo sempre stati fermi, che non vogliamo muoverci, o forse che non vogliamo altro che iniziare a essere movimento.

Il rischio e' nel non cogliere la direzione che vuole indicarci e nel farci intrappolare nella sua forma avvolgente.

Quando la paura non e' più segnale della nostra resistenza al cambiamento ma il limite di fronte a cui ci si ferma allora essa inghiotte il mondo. Solo un modo allora per scioglierla: l'azione che porta luce, affinche' possiamo vedere cio' che nascondeva e che dovevamo vedere . La paura che inghiotte il mondo e ci svela che quando c'e' lei siamo noi a non esserci più'. Ci indica quel territorio dove noi ci sentiamo morire, quel continente ancora da scoprire, ed e' qui che si trasforma in fiducia, perche' una volta scoperte le carte, sempre dietro ogni porta chiusa c'e' una stanza segreta e sempre per aprirla c'e' una maniglia e quella maniglia ha bisogno di una decisione.

 

Flaminia Ripani

 


Dalla vergogna al panico, avendo freddo ai piedi o i piedi freddi, la paura e' dietro gran parte di cio' che mi muove e muove il mondo umano.

Io ho paura

- della Solitudine: l' abbandono, il rifiuto, l' insignificanza..

- l' Ignoto: L' insicurezza, la perdita di controllo, il giudizio degli altri..

- La Sofferenza e la Morte: l' estinzione dell' ego, le emozioni..

E' la paura che e' all' origine delle mie colpe, della mia vergogna, dei miei timori, dei miei dissapori, della mia gelosia, della mia inferiorita', della mia vilta', della mia sottomissione, del mio stress, della mia rivalita', della mia invidia, del mio abbandono..

Ma anche della mia fame di potere, della mia arroganza, della mia collera, della mia vendetta, della mia avidita', della mia temerarieta', della mia superiorita'..

Io provo paura ogni volta che mi sento in pericolo e minacciato. E che credo di non avere le risorse necessario per fronteggiare tale situazione. Io sono il responsabile di questi sentimenti o di questi giudizi. Io ho paura di cio' che potrebbe succedere e non di cio' che accade.

Io ho paura del futuro, immediato o lontano; ora, il futuro e' una mia costruzione mentale, fatta a partire dalla mia memoria del passato. La mia paura e' dunque ben legata al mio attaccamento ad un immagine del me ideale, della mia identita'.

Io potrei, quindi, per combattere la mia paura, sdrammatizzare la minaccia o rafforzare la mia autostima, e ancor meglio, fare entrambe le cose.

Cosi' facendo, io do al mio corpo consistenza ed esistenza.

La mia paura viene dai tempi in cui, bambino, piccolo e indifeso, ero grato a quegli adulti che mi accudivano - i quali a loro volta portavano le loro paure- e se mi dimenticano? e se mi abbandonano? Appresi la paura in quel momento e questa mi ha accompagnato per la vita e.. quando non aiuta a crescere, non si cresce piu'.

 " Le paure infantili latenti sono utilizzati allora da chef abili per ingrandire i pericoli agli occhi delle persone, o per farglieli ignorare..fino a quando e' troppo tardi"

Questa paura..  ne avevo bisogno fino ad ora? Che cosa mi impedisce di vivere senza paura? Posso prendere solo in considerazione l' idea? Non di risolvere o combattere la paura -poiche' essa vivifica, donando esistenza e consistenza- ma di scioglierla?

La domanda non e' " Di cosa ho paura?", ma " Qual'e' la mia paura?"

Non c'e' che una sola paura, profonda, arcaica, ingiustificata, che mi ha portato piu' fastidio che piacere, che io ho appreso e ho nutrito. Io l' accolgo, la riconosco e l' accetto. Senza ansia la guardo e la amo.

Questa e' la migliore educazione che posso offrirmi ed offrire.

 

Jean-Pierre Lepri (traduzione a cura di Flaminia RIpani)


IL GIUSTO SBAGLIO

 

Quando dobbiamo decidere, quando si tratta di compiere una scelta, quando è tempo di entrare in azione, ci troviamo sempre di fronte ad una certa probabilità di andare a fare ciò che è giusto e ad un'altra di andare a fare ciò che è sbagliato.

Che ci piaccia, oppure no, nessuna azione ha la piena sicurezza di successo.
Ma la cosa positiva di uno sbaglio, o di una riuscita, è che è possibile capire,dopo aver reso l'azione reale, se si è fatto uno sbaglio, o meno. Se prima di un'azione abbiamo sempre una percentuale di rischio, dopo un'azione potremmo essere sicuri della natura del risultato, se solo ci fermassimo a valutarlo.
Eppure spesso la valutazione non viene fatta, o c'è ma è volontariamente errata, o arriva ma appare in ritardo.
La maggior parte delle persone è pronta a prendersi il merito dei propri successi, ma non il riconoscimento dei propri sbagli.

Così capita anche che uno sbaglio venga interpretato come un successo.
Se non si è pronti ad ammettere di aver sbagliato.
Se si crede di non poter correggere un errore.
Se non si vuole guardare indietro e comprendere la causa dello sbaglio.

Se si teme che sia troppo tardi.

 

Se si è bloccati dalla paura del pegno da pagare.
Se si è frenati dalla rabbia che rende coscienti che, senza quello sbaglio, tutto sarebbe stato diverso, o migliore, o, per lo meno, meno sbagliato.

E d'un tratto ecco che si preferisce che gli sbagli, ai nostri occhi e giudizio, non esistano più.
Ma è questo il metodo giusto per non fare altri sbagli? O per rendere uno sbaglio meno sbagliato?

Mentre cresciamo ci sentiamo spesso dire che "dobbiamo sbattere noi la testa contro il muro", che siamo noi a dover sbagliare per capire che abbiamo sbagliato. Veniamo sguinzagliati nel parco delle scelte, dove da piccoli non riusciamo ancora a distinguere uno scivolo da un'altalena. Iniziamo a farci un pò male, a sbattere contro qualche spigolo, a cadere da qualche  gradino. E avvertiamo un pò di dolore, quel po’di dolore sufficiente per fermarci e tornare a casa a medicarci.

E quanto sarebbe più facile, se tutti gli sbagli fossero dolorosi da subito!
Il problema degli sbagli è che spesso non fanno male sul momento.
E' un pò come se ci rompessimo una gamba ma potessimo tranquillamente continuare a correre, aggravando inconsapevolmente la frattura, fino a quando non sentissimo un dolore fortissimo che improvvisamente non ci consente pù di muoverci, che ci paralizza.

E ci chiediamo quando la gamba si è rotta. Contro cosa abbiamo sbattuto. Perchè non ce ne siamo accorti prima.  A cosa serva avere un senso di colpa, quando ormai la gamba si è rotta.

La verità è che anche il dolore ha il suo senso. Il dolore serve a fermarci. A farci smettere di farsi male.
E' questa la funzione del dolore. Il dolore c'è per essere guarito, non ignorato. Prima sentiamo la frattura, prima curiamo la gamba, prima comprendiamo la gravità della botta, prima torniamo a correre di nuovo.

Allora anche gli sbagli esistono ed esistono per essere corretti, non per rimanere sempre sbagliati.

Ecco allora che persino il più grande sbaglio può essere aggiustato.
Perché, anche se continueremo a sentire le conseguenze della frattura sanata, anche se non correremo più come prima, possiamo apprendere da quello sbaglio.
La verità è che anche commettere un grande errore può aiutarci a fare poi la cosa giusta.
Per poter tornare indietro e fare nuovi passi avanti. E capire chi siamo veramente.

di Lucrezia Paci


"Io credo che si debba sempre far sapere a una persona che, se fa uno sbaglio, non è la fine del mondo. La fine del mondo sarebbe fare uno sbaglio e nasconderlo. Se uno non è disposto a commettere errori, non saprà mai prendere una decisione giusta. Se però fa sbagli in continuazione, allora sarà meglio che vada a lavorare per la concorrenza."
Sandy Weill

 



La scienza dei contenitori


"La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi è destinata a scoprire lillusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita."

Luigi Pirandello


 

I problemi che si incontrano nella comunicazione derivano spesso da un problema di dimensioni.

Le parole possono essere sentieri che ci conducono oltre i nostri limiti verso mondi sconosciuti, un sentiero che necessita di essere visto, e quindi di uno sguardo che si guardi "fuori" dai suoi confini (perchè li dove guardiamo, andiamo e siamo). Tuttavia spesso lo sguardo non va oltre i confini del nostro mondo e ogni novità, quando non ci

guida oltre, vuole essere compresa e capita, ovvero riportata entro i confini del nostro mondo. 

 

Noi diveniamo i contenitori in tale modo e non gli esploratori coraggiosi che potremmo essere, a caccia di limiti che ci rivelino ciò che non sapevamo ancora di noi e del mondo.

Quando siamo noi a voler fare da contenitori alle novità che ci troviamo davanti, insistendo nel rimanere dove siamo, senza fare un solo passo, proviamo un certo senso di orgoglio che nasce nel constatare, dopo aver capito, e quindi mostrato a noi stessi che nessuna novità c'era, che il nostro mondo così com'è va benissimo e non c'è nulla da scoprire lì fuori. Ma cosa fare quando invece ci troviamo ad aver a che fare con i contenitori altrui? Quando cogliamo qualche novità e nel volerla comunicare il mondo ci dice che in fondo (quale?) non stiamo dicendo nulla che non sia già stato detto? Quando di fronte ai nostri cambiamenti, ovvero alle esplorazioni di noi stessi, ci si dice che non siamo più gli stessi e che quindi non ci si riesce più a "capire"? Cosa fare quando i contenitori del mondo diventano improvvisamente stretti e non possono più contenerci? Quei contenitori sono fatti di nulla, eppure una forma l'hanno, e quindi chi vi si trova dentro e li crede essere l'unica realtà possibile, non seguirà i segnali che vengono da fuori, perchè il nulla non permette la vista. E allora cosa fare?

Il mondo non vuole cambiare i suoi contenitori, e a nulla servirebbe un'opera di convincimento; e inoltre chi dai contenitori è uscito sicuramente non ne vuole di nuovi, nè vorrebbe mai promuovere una nuova tecnologia che apportasse loro modifiche innovative. E sicuramente un tale individuo non sarà mai a favore di un suo ridimensionamento entro le dimensioni del contenitore.

La risposta e il trucco è agire nel cambiamento, che è già un essere sempre fuori dai confini senza però negarli.

..come i colori di un quadro cambiano la cornice che li contiene e insieme li mostra: se la tela è troppo piccola, quando tu volevi dipingere il mondo, l'unica soluzione per farlo è andare in profondità! E inoltre quando si va in profondità si cresce..e allora di fronte ai contenitori scoprite e immergetevi nelle profondità della vostra crescita e i limiti dei contenitori lasceranno posto ai colori del mondo.

 

Flaminia Ripani

 

LA REALE NATURA

 

Quante domande si perdono e in quante domande ci perdiamo, con l'illusione di trovare nella domanda la risposta. 

Quanti blocchi abbiamo e quanti ci bloccano, con la speranza che arriverà qualcosa di esterno a sbloccarci. 

Quanti progetti costruiamo nella mente e quanti ci costruiscono la mente, nell'attesa che saranno quei progetti che ci realizzeranno.

 

Quanto temporeggiamo affidando al tempo di cambiare le cose e quanto tempo diciamo di non avere, mentre lo stiamo perdendo!

 

Ho cinque sensi. Vedo, sento, tocco, assaporo, odoro. 

Con i miei sensi costruisco esperienza e sperimento la realtà.

Se penso di vedere, non vedo.
Se penso di sentire, non sento.

Se penso di toccare, non tocco.

Se penso di assaporare, non assaporo.

Se penso di odorare, non odoro.

 

Ma se inizio ad ad aprire un occhio , inizio a vedere qualcosa.

Se inizio a sporgere l'orecchio, inizio a sentire qualcosa.

Se inizio ad appoggiare le mani, inizio a toccare qualcosa.

Se inizio a deglutire, inizio ad assaporare qualcosa.

Se inizio a inspirare, inizio ad annusare qualcosa.

 

Pensare qualcosa e temporeggiare pensando che la cosa arrivi sono costruzioni ingannevoli della mente. Ci sembra di costruire o di star crescendo nelle nostre domande, quando di fatto restiamo fermi, mentre pesiamo sempre di più.

 

Per poter fare esperienza di qualcosa, bisogna innanzitutto che la cosa sia reale. Solo rendendo reale ciò che pensiamo possiamo vederlo, e vederci, nella realtà. 

Le forme non nascono forme, ma ci diventano. L'unico modo per prendere forma, è diventare reali. 

 

Rendete i vostri pensieri reali, per comprendere che la realtà non è nel pensiero ma nella forma e che la forma non è nella domanda ma nella risposta che si realizza.

 

di Lucrezia Paci


Fiorire è il fine. 

Chi passa un fiore

Con uno sguardo distratto

Stenterà a sospettare

Le minime circostanze

 

Coinvolte in quel luminoso fenomeno

Costruito in modo così intricato

Poi offerto come una farfalla

Al mezzogiorno

 

Colmare il bocciolo – combattere il verme

Ottenere quanta rugiada gli spetta –

Regolare il calore – eludere il vento –

Sfuggire all’ape ladruncola

 

Non deludere la natura grande

Che attende proprio quel giorno –

Essere un fiore è profonda

Responsabilità.

 

Emily Dickinson

 



CONSIGLI

 

Non c'è nessun "consiglio" che possa davvero servire nella vita.

Le cose accadono, ecco tutto.

 

Sándor Márai, La donna giusta, 1941

 

Quando siamo di fronte ad un problema, quando non sappiamo cosa fare, quando ci chiediamo cosa sia piu' giusto, ecco che cerchiamo una risposta fuori dai nostri confini (forse perche' avvertiamo che la soluzione e' proprio al di fuori di noi, o meglio dell' immagine che abbiamo di noi stessi) per chiedere un consiglio.

E allora i consigli che chiediamo arivano, spesso vengono dati di fretta, a volte piu' lentamente, pensati e ragionati..chi ci da un consiglio valuta tutte le minime circostanze che potremmo trovarci a fronteggiare, i pro e i contro di ogni decisione che potremmo prendere, perche' nei consigli non si vuole sbagliare.

Ma sbagliare cosa? Quand' e' che si sbaglia nel dare un consiglio? Quand' e' che un consiglio arriva al momento giusto? Ma soprattutto, qual' e' il comportamento giusto da avere?

Non si puo' rispondere alla prima domanda senza aver osservato bene la seconda, e ancora piu a fondo, alla base, esistono i comportamenti “ giusti”?

Osservando tutto il procedimento che porta sino a quell' inestricabile groviglio di tensioni che si crea quando e' ora di dare o di ricevere un consiglio si puo' conoscere il modo di scioglierlo, e sciogliendolo quindi distendere quel filo prima annodato cosicche' invece che legarci possa portaci fuori da quel labirinto in cui eravamo entrati quando abbiamo chiesto il consiglio o quando abbiamo tentato di darne uno.

 

I Consigli non si danno e non si ricevono..non si prova a dare un consiglio, non si tira a dadi con la vita, ne' si sceglie tra i propri comportamenti il piu' efficiente, semplicemente perche' non esistono comportamenti ma persone, ognuna con la propria storia, i propri nodi, i propri labirinti..ognuna alla ricerca del proprio coraggio, della propria azione, della fiducia e ognuna a suo modo.

Possiamo convincere un pittore che un colore sia meglio di un altro? Se si in che modo?

Ma poi..un pittore chiederebbe consiglio sul colore da usare?

Non esistono comportamenti giusti e sbagliati, formule magiche, esiste la nostra storia e la nostra vita, cio' che siamo e che vogliamo. Prima di ogni comportamento ci siamo noi.

Si cerca di poteggerci quando si dice che e' meglio non ascoltare gli altri, che il mondo e' cattivo, pericoloso, irrimediabile e che, quindi, non ci resta che faticare, eppure si scorda la cosa piu' importante: chi e' che deve fare tutto cio'.

Chi siamo noi? Da cosa dobbiamo difenderci? Dove dobbiamo andare? Cosa dobbiamo proteggere?

Per rispondere dobbiamo prima di tutto esistere “noi”, e se venisse insegnato ad “essere”, allora non ci sarebbe neanche bisogno di dare tutti questi bei consigli. Forse e' proprio per questo che non viene insegnato: perche' poi nessuno servirebbe piu' a nessuno e forse nessuno potrebbe veramente fare a meno di tutti.

 

 di Flaminia Ripani


 

IL GIUSTO CONFINE


Che cosa sia un’immersione in superficie è già stato detto: vedere oltre le linee dell’altro, senza bisogno di andare oltre quelle linee. Cogliere uno spazio, senza entrarci o dissacrarlo con i propri passi. Semplicemente sentire in silenzio.

 

Ma cosa accade quando si legge ciò che l’altro non ha ancora letto?

 Come dire: “vedo un cumulo di cenere in una stanza che non è la mia, ma di qualcun altro, che continua a non vedere che quella cenere è proprio lì, dentro il suo spazio.”

 Tu la vedi, vedi la cenere. 

E ti chiedi “che fare? Parlare o non svelare?”.

 

Ecco che allora rientri con gli occhi dentro il tuo confine, per guardare da lontano l’altro spazio, dove è confinata la cenere. Sai che la cenere non è sana per lui, sai che continuerà a respirarla pensando che sia solo aria del suo spazio, sai che non gli appartiene perché non sa neanche di averla. 

Non rifletti se l’altro sia pronto ad essere aiutato.

E ti chiedi “che fare? Parlare o non svelare?”

Nella maggior parte dei casi, non riesci a non parlare. La vedi là, vuoi solo che sia rimossa per il bene dell’altro, non pensi al fatto che l’altro possa negare. E sveli. Sveli e vieni negato. Vengono negati il tuo aiuto, le tue parole e persino l’esistenza della cenere.

Nel primo passaggio finisci con l’essere negato, insieme alla cenere.

E l’unica cosa che puoi fare è restare nel tuo spazio, senza consentire che l’altro lo violi a sua volta, a causa della rabbia per la violazione sentita.

 Se riesci a rientrare nei tuoi confini e a tenere a bada la foga dell’altro, hai superato il secondo passaggio. 

Sei ancora a te.

A quel punto l’altro rientrerà nel proprio spazio, dove è rimasta la cenere. Si aprirà il terzo passaggio. Finita la rabbia e prosciugata l’incomprensione, inizierà a guardarsi intorno. Avrà due possibilità: stare fermo e continuare a respirare la cenere come fosse aria o avvicinarsi alla cenere e dirsi che aria non era.  A prescindere dalla decisione che prenderà, lo avrai messo davanti ad una scelta.

 

E’ così che funziona. 

Possiamo indurre a scegliere, ma non a cosa scegliere. 

La scelta spetta all’altro.

A noi spetta metterlo davanti alla sua scelta.

 

E’ questo il giusto confine: aiutare ma non salvare, rischiare ma senza  farsi male.

 

Le immersioni in superficie fanno vedere oltre il confine, è vero. 

Ma proiettano anche chi si immerge in uno spazio che non è il proprio.

 

Allora bisogna essere attenti ai guardiani e pronti a indietreggiare in caso di allarme, accontentandosi di aver lasciato anche solo una traccia.

Non perdete mai il giusto confine del vostro rientro in voi stessi. 



 di Lucrezia Paci 

"Ci sono avvenimenti di cui la maggior parte di noi esita a parlare perché non si conformano alla realtà quotidiana e sfidano ogni spiegazione razionale. Non sono eventi esterni particolari, ma  accadimenti delle nostre vite interiori, respinti come creazioni della fantasia ed esclusi dalla memoria. 

D'improvviso, la percezione della realtà subisce una trasformazione stupefacente o allarmante ma comunque insolita. Il mondo ci appare in una nuova luce, assume un significato particolare. Esperienze del genere possono essere leggere e fugaci, come un soffio d'aria. Oppure fissarsi profondamente nelle nostre menti."

Ernst Jünger 


 

IMMERSIONI IN SUPERFICIE

Dovrebbe essere più o meno così.

Ognuno dovrebbe avere la propria piccola area di spazio, dove nessuno possa entrare senza il suo permesso. Chi diceva che gli spazi non contavano, probabilmente, o non ne aveva mai avuti o ne aveva avuti troppi.

La prima verità è che gli spazi sono importanti e ci servono.

La seconda verità è che gli spazi non vengono rispettati. Che non si sa mai dove inizia e dove finisce uno spazio, che si vuole sempre andare oltre il confine sperando di prendere qualcosa in più, una volta entrati in uno spazio che non è il nostro.

La terza verità è che, quando un confine viene superato e uno spazio violato, succede un gran trambusto. Che ogni cosa oscilla sul proprio posto fino a perderlo, che tutto va rimesso come era, prima che qualcuno entrasse nel nostro spazio.

La quarta verità è che, una volta che un confine viene superato, è quasi impossibile tornare indietro.

Così, per evitare un dissesto, ci attiviamo per proteggere i nostri spazi da soli, senza confidare che capiranno fin dove protrarsi.

E tracciamo linee. Tra la nostra camera e il resto della casa, tra noi e chi ci è vicino, tra il presente ed il passato, tra i nostri bisogni e le nostre paure, tra ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo che accada. E ci arrabbiamo quando qualcuno oltrepassa una linea. Perchè non aveva il permesso, perchè non può capire, perchè non deve sapere, perchè in fondo è meglio così.

Nella maggior parte dei casi siamo noi a decidere chi far entrare e chi far uscire, chi far rimanere dentro e chi allontanare. E non ci accorgiamo che quelle linee, che avevamo tracciato per proteggerci, a volte possono anche soffocarci, farci sentire stretti e compressi in qualcosa che, forse, andrebbe liberato.

Poi capita anche che qualcuno, senza permesso, riesca ad entrare dentro i tuoi spazi, senza bisogno di oltrepassare la linea.

Che resti fuori ma ti guardi dentro.

Che riesca ad immergersi in superficie, senza dover andare a fondo.

Che ti faccia comprendere che le linee, alla fine, non servono per chi è in grado di capirle. Forse gli spazi andrebbero rispettati, è vero.

Ma anche qualche linea andrebbe tolta, sperando che non sempre i muri servano o serva abbatterli.

Diamo tempo allo spazio per liberarci delle barriere e spazio al tempo per immergerci in superficie.

 

Lucrezia Paci


  “Gli eventi e gli incontri non sono zavorre, o vie strette di cui non si conosce l’uscita, ma piuttosto specchi – piccoli, grandi, convessi, deformanti, scheggianti, oscurati – capaci comunque, con il loro riflesso, di farci conoscere una parte ancora ignota di noi stessi. Lungo i bivi della tua strada incontrerai altre vite. Conoscerle o non conoscerle, viverle a fondo o lasciarle perdere, dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo.”

Susanna Tamaro

Le forme del cambiamento

“Chi nasce tondo non può morire quadrato.”
Di solito si dice che le cose siano destinate a cambiare o meno e che il cambiamento sia l’essenza stessa della vita di ognuno, senza riflettere sul fatto che un cambiamento debba essere assecondato o meno da chi si predispone a cambiare.

Pensare che nulla ci possa condizionare, è vero, sarebbe illusorio, ma pensare che qualcosa possa arrivare addirittura a plasmarci sarebbe, del resto, del tutto esagerato.

Le cose succedono e non possiamo evitare che accadano.
Le emozioni si provano e non possiamo liberarcene a comando.
Le persone si allontanano e non possiamo richiamarle con un fischio.
Ma è anche vero che si attribuisce alle cose il potere che poi hanno.
Che le emozioni si insediano ma si possono gestire.
Che le persone, che se ne sono andate, qualcosa avranno pur lasciato.

Cambiare o non rinunciare a quello che si ha, o che si è, si ridurebbe quindi ad una nostra decisione.
Soprattutto oggi, quando verità e convenienza non vanno più d’accordo, quando anche andare avanti sulla propria strada, senza cambiare segnaletica e corsia, rischia di esser visto come una rinuncia ad guadagno, ogni decisione dovrebbe richiedere coraggio.
Avere coraggio diventerebbe la prima arma di difesa contro la cedevole convinzione di volersi privare di quei valori e insegnamenti appresi, che d’un tratto rappresentano un peso che è di ostacolo al guadagno stesso.

Cosa resterebbe, infatti, di qualcuno se non restasse più nulla di lui?
Quanto starebbe bene un cerchio nelle forme di un quadrato?
E quanto resisterebbe un quadrato nelle forme di un cerchio?

E’ vero, ci sono persone che vogliono cambiare e cambiano.
Che si sentono rigenerate perchè sono cambiate, perchè, ai loro occhi,”ce l’hanno fatta”.
Che molti cerchi diventano quadrati e in quattro spigoli non stanno neanche male, dopotutto.

Ma nessuno ha mai detto che siamo tutti uguali.
O che cambiare sia un segno di forza.
O che chi cambia potrà essere felice.

Probabilmente la felicità si trova solo nei confini della propria forma.
Ecco perché a soffrire di più sono quelli che non sanno cosa vogliono, non quelli che non hanno ciò che vorrebbero.
Forse alcune forme non sanno ancora se sentirsi cerchi, o quadrati.
E non sanno voler altro dalla propria natura che cambiarla di nuovo.
Perchè non tutti, di natura, restano fedeli a se stessi.
E così anche chi nasce tondo può morire quadrato.
Se alla sua forma non tiene poi tanto.
Se è disposto a smontare linee e a riposizionarle in modo diverso, disperdendo ciò che vi era dentro.

Amate la vostra forma e non smettete mai di cercarla dentro voi stessi, in modo che, se anche non saprete cosa volere, almeno saprete dove trovarlo.

 

Lucrezia Paci

 

“Noi spose di un tempo senza durata
noi, anime-bolle-di-vento-e-sapone,
sospinte in un eterno mutare.

Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.”
- H. Hesse -

 

I miti familiari

I miti familiari sono un insieme di credenze condivise da tutti i membri della famiglia, in parte reali, in parte frutto della fantasia. Essi sono tramandati da generazione in generazione, spesso espressi attraverso detti o proverbi riproposti alle nuove generazioni in dialetto.

Il mito rappresenta una sorta di chiave di lettura e di interpretazione della realtà per tutta la famiglia: offre delle immagini ideali di quel che va realizzato, dice ciò che si deve o non si deve essere o fare.

Tali credenze assumono il carattere di mito proprio perchè non sono messe in discussione o sottoposte a verifica. La capacità coesiva del mito è facilmente individuabile anche dal fatto che la famiglia tende a valorizzarlo e a difenderlo.

Alcuni esempi di miti sono quelli: dell'armonia familiare ("nella nostra famiglia non ci sono problemi"), della condivisione familiare ("nella nostra famiglia ci diciamo tutto"), del capro espiatorio familiare ("Lui è la causa dei nostri problemi"), dell'onestà ("nella nostra famiglia non è consentita la disonestà").


Famiglie

Valori e pensieri - ma anche affetti dolorosi e segreti - si trasmettono da una generazione all'altra, mantenendo una continuità con il passato che nel tempo si trasforma, iscrivendosi nell'inconscio come una struttura interna.

 

L'ipotesi di molti ricercatori e clinici è che vi sia una trasmissione transgenerazionale di vissuti psichici inconsci che producono effetti imprevedibili e in apparenza inspiegabili.

 

Trasmettere significa far passare un oggetto, un pensiero, una storia, un affetto da una persona all'altra, da una generazione all'altra, mantenendo una continuità con il passato che nel tempo si trasforma.

 

Talvolta succede che i contenuti trasmessi, di natura traumatica, appartengano alla sfera del "non pensabile", ciò che si trasmette non è stato cioè elaborato in quanto oggetto di negazione e di rigetto da parte di chi l' ha subìto. Tali vissuti vengono percepiti come devitalizzanti, come presenza di "qualcosa di strano", un elemento che aliena e disturba.


Il barattolo

Un professore, davanti alla sua classe di filosofia, senza dire parola, prende un barattolo grande e vuoto e procede a riempirlo con delle palle da golf. Dopo chiede agli studenti se il barattolo è pieno. Gli studenti sono d’accordo e dicono di si.

Allora il professore prende una scatola piena di biglie e la versa dentro il barattolo. Le biglie riempiono gli spazi vuoti tra le palle da golf. Il professore chiede di nuovo agli studenti se il barattolo è pieno e loro rispondono di nuovo di si. 

Il professore prende una scatola di sabbia e la versa dentro il barattolo. Ovviamente la sabbia riempie tutti gli spazi vuoti e il professore chiede ancora se il barattolo è pieno. Anche questa volta gli studenti rispondono con un si unanime.

Il professore velocemente aggiunge due tazze di caffé al contenuto del barattolo ed effettivamente riempie tutti gli spazi vuoti tra la sabbia. Allora gli studenti si mettono a ridere.

Quando la risata finisce il professore dice: “Voglio che vi rendiate conto che questo barattolo rappresenta la vita…Le palle da golf sono le cose importanti come la famiglia, i figli, la salute, gli amici, l’amore, le cose che ci appassionano. Sono cose che, anche se perdessimo tutto e ci restassero solo quelle, le nostre vite sarebbero ancora piene.

Le biglie sono le altre cose che ci importano, come il lavoro, la casa, la macchina, ecc. La sabbia è tutto il resto: le piccole cose. Se prima di tutto mettessimo nel barattolo la sabbia, non ci sarebbe posto per le palline di vetro né per le palle da golf. La stessa cosa succede con la vita. Se utilizziamo tutto il nostro tempo ed energia nelle cose piccole, non avremo mai spazio per le cose realmente importanti. Fai attenzione alle cose che sono cruciali per la tua felicità: gioca con i tuoi figli, prenditi il tempo per andare dal medico, vai con il tuo partner a cena, pratica il tuo sport o hobby preferito. Ci sarà sempre tempo per pulire casa, per tagliare le erbacce, per riparare le piccole cose… Occupati prima delle palline da golf, delle cose che realmente ti importano. Stabilisci le tue priorità: il resto è solo sabbia”.

Uno degli studenti alza la mano e chiede cosa rappresenti il caffè. Il professore sorride e dice: “Sono contento che tu mi faccia questa domanda. E’ solo per dimostrarvi che non importa quanto occupata possa sembrare la vostra vita, c’è sempre posto per un paio di tazze di caffé con un amico!”.


Fiorire


Un fiore. Chi passa 

Con uno sguardo distratto

Stenterà a sospettare

Le minime circostanze

 

Coinvolte in quel luminoso fenomeno

Costruito in modo così intricato

Poi offerto come una farfalla

Al mezzogiorno

 

Colmare il bocciolo – combattere il verme

Ottenere quanta rugiada gli spetta –

Regolare il calore – eludere il vento –

Sfuggire all’ape ladruncola

 

Non deludere la natura grande

Che l’attende proprio quel giorno –

Essere un fiore è profonda

Responsabilità.

 

Emily Dickinson


Perdersi...poi ritrovarsi

L'incontro di counseling, invece di essere allenamento a "farsi la corazza" ed invito a mortificare ulteriormente le parti più indifese e sensibili ma vitali del Sè, le rianima, le nutre e rivitalizza.

Questi aspetti vitali paiono dapprima chiedere timidamente una legittimazione, un diritto di cittadinanza, poi giustizia e riconoscimento pieno; infine si riappropriano di territori mentali.

Inizialmente vivono in riserve, come parti del Sè straniere ed emarginate dalle vicende storico-oggettuali. Via via la persona scoprirà con sorpresa che esse sono in realtà le parti originarie ed indigene del Sè che si sono sentite a lungo clandestine ed immigrate.

Come ci ha insegnato la storia dei nativi americani, i "selvaggi" non sono sempre crudeli e distruttivi, bensì piuttosto elementi vitali, in contatto ed armonia con la natura ed i bisogni essenziali del nostro essere.


La tua storia e il counseling

Rispetto alla "storia di vita" che il cliente racconta al professionista nell'ambito della relazione d'aiuto, egli ha bisogno una rivelazione, di un cambio di paradigma, di vedere un qualcosa che prima non vedeva, di capire un qualcosa che prima non riusciva a capire.

Se, come affermato da Einstein “i problemi che abbiamo non possono essere risolti con lo stesso livello di pensiero che li ha generati”, è necessario, per uscire dal loop dei comportamenti automatici e dalla strategia del riproporre con più forza, (modalità “di più”) un tentativo di soluzione già rivelatasi inefficace, pensare ad un altro livello, più elevato e cambiare atteggiamento perché è cambiata la mentalità.


Dei draghi e dell'eroe

In tutto il mondo, da tempo immemorabile, la cultura, i valori, gli insegnamenti, le religioni sono trasmessi attraverso le storie. Le storie fanno riferimento ai miti, agli archetipi dell’inconscio collettivo e parlano direttamente all’inconscio perché utilizzano il suo stesso linguaggio, quello dei simboli. Una storia ben raccontata, provoca nell’ascoltatore (basta pensare ai bambini) uno stato di trance, in cui razionalmente si recepisce il contenuto del racconto ed inconsciamente se ne assorbe la morale, il messaggio che la storia porta con sé.

 

Ci sono degli elementi imprescindibili che ricorrono nelle storie più avvincenti, siano esse fiabe, film, libri o frammenti della nostra stessa esistenza:

  • Il protagonista
  • Il fine
  • Il problema
  • Il nemico
  • Il piano
  • Il conflitto
  • La rivelazione
  • L’equilibrio

 

Il protagonista corrisponde spesso al mito dell’eroe e nel racconto della nostra vita naturalmente siamo noi stessi. La nostra prospettiva è la sola che definisce la situazione e che genera la regia del racconto.

 

Il fine è ciò che vogliamo raggiungere, il nostro obbiettivo, quello che desideriamo, di cui abbiamo bisogno per realizzarci, per stare bene, condurre un’esistenza soddisfacente ed essere felici.

 

Il problema è ciò che si interpone tra noi ed il nostro fine, che può essere visto come un ostacolo insormontabile, oppure un’occasione per misurarsi, una sfida.

 

Il nemico è l’altro o l’altra parte di noi, chi ci impedisce di superare il problema. Talvolta assume caratteristiche impersonali, è la sfortuna, il destino, oppure qualcuno che condivide il nostro sistema, il capoufficio, il marito, la figlia, oppure è una parte di noi stessi, un nostro limite, la timidezza, l’insicurezza, la bassa autostima, ecc.

 

Il piano è la strategia che noi abbiamo adottato, il nostro comportamento, la nostra risposta, i nostri tentativi di soluzione al problema. Molte volte il piano non funziona, la nostra strategia si rivela inefficace.

 

Il conflitto è lo scontro, il combattimento, il momento in cui mettiamo in campo il nostro coraggio e le nostre risorse per affrontare l’avversario.

 

La rivelazione è il frutto che auspicabilmente nasce dal conflitto. Non necessariamente usciamo vincitori dal conflitto ma, se la storia finisce bene, ne risultiamo cambiati, trasformati. Abbiamo fatto un percorso e siamo arrivati ad assumere una nuova prospettiva, a vedere le cose con altri occhi, a notare qualcosa che prima non vedevamo, perché ora siamo cresciuti, ci siamo evoluti. Magari non abbiamo raggiunto l’obbiettivo iniziale, ma comunque la nostra vita non sarà più la stessa. E’ a questo punto che può risultare decisivo l’intervento del professionista, che ha affiancato e sostenuto il cliente attraverso le varie fasi ed ancora di più lo supporta ora, agevolando il raggiungimento della rivelazione.

 

L’equilibrio è la situazione di consapevolezza ottenuta, il fare tesoro dell’esperienza, le abilità acquisite e la maggiore conoscenza di se stessi saranno le nostre risorse anche per le situazioni che si presenteranno in futuro, abbiamo imparato “ad imparare”.


C'era una volta un re....

“C’era una volta un re

Che disse alla sua dama:

- raccontami una storia! –

Ed ella incominciò.”

Filastrocca popolare

 

Il cliente arriva allo studio del counselor come in quello dell’operatore shiatsu con una storia, la sua storia. Tutte le persone vivono eventi, situazioni, esperienze ma il modo in cui esse le vivono, le interpretano e se le raccontano è assolutamente personale. Sarà certamente successo a tutti di ascoltare, da due persone diverse, la loro versione di un fatto a cui entrambe hanno assistito e di notare come i due racconti possano risultare differenti, tanto da parere riferirsi non allo stesso episodio ma a eventi diversi. Questo perché “la realtà non esiste”, o meglio per ognuno di noi esiste la “propria” realtà, mediata ed interpretata sulla base dei nostri limiti sensoriali, dei nostri schemi mentali, delle nostre credenze, delle nostre emozioni, delle nostre armature caratteriali, ecc.

 

Anche storia che il cliente “racconta” al professionista è frutto di una personale elaborazione della realtà, ed è una storia cristallizzata, che spesso il cliente si è già raccontato centinaia di volte ed in cui è rimasto imprigionato.


Non chiamiamola terapia!

Il termine moderno “terapia” si riferisce ai modi ed ai mezzi di cui la medicina si avvale per combattere le malattie. Da questo punto di vista, né l’operatore shiatsu, né il counselor applicano alcuna forma di terapia, in quanto non sono medici, né psicoterapeuti. Se risaliamo però al significato originale della parola “terapia”, vediamo che la parola greca “therapeia” indica il prendersi cura, il servire qualcuno, l’assistere.Therapeia è l’arte di curarsi-di, occuparsi-di, prendersi cura dell’esistenza e della condizione umana di qualcuno, e coadiuvarne lo sviluppo delle risorse, rendendola più soddisfacente ed efficace. Therapeutes è l’assistente, il curatore, colui che si occupa di formare. In Omero, ad esempio, Patroclo viene indicato più volte come il Therapon di Achille, proprio perché suo stretto amico e quasi alter-ego.

 

L’odierno intervento di counseling, così come quello di shiatsu, derivano proprio dalla Therapeia. Potremmo dire che, in entrambi i casi, il professionista si prende cura della persona, promuovendone l’evoluzione, la crescita, l’equilibrio, il benessere. L’obbiettivo della medicina non è il curare, il medico vuole guarire, cioè ri-portare il paziente verso una condizione oggettivamente regolare, per cui la cura è semplicemente il mezzo che egli utilizza a questo scopo. L’obbiettivo della Therapeia, al contrario, non è la somministrazione di un rimedio, né il ri-portare il cliente verso una condizione di “normalità”, ma il sostenere il cliente mentre si cura da sé, mentre si rapporta al mondo ed a se stesso, esprimendo la sua intima natura e il suo personale modo di essere.


Ti vedo

A proposito dell’osservazione, mi pare interessante notare come nella cultura occidentale, al contrario di quella orientale, si sia portati a “guardare” l’altro,   anziché “vederlo”.

 

E’ molto significativa questa differenza linguistica, considerando che il termine “guardare” deriva dal franco “wardon”, cioè “guardarsi, stare in guardia”.

 

Questo implica l’affiancare all’azione di guardare, un atteggiamento difensivo, un sospetto, un timore. Lo sguardo che si rivolge all’altro è filtrato dalle aspettative, dall’interpretazione, dal giudizio.   L’operatore shiatsu, in alternativa al guardare il cliente, tenta di “vederlo” e cioè entrare in contatto con lui, con un’apertura totale che permette l’accettazione incondizionata dell’altro in quanto essere umano, indipendentemente dai suoi comportamenti. Questo sguardo più “morbido”,         libero da pregiudizi e proiezioni, permette di cogliere il reale bisogno dell’altro, il messaggio autentico che arriva dal profondo.

 

         Se l’operatore shiatsu si limita a guardare il cliente, egli cercherà quegli elementi che gli permettano, attraverso un procedimento mentale, di avallare o   smentire le ipotesi formulate, mosso da un piano, da una ricerca attiva sul piano intellettuale. Nella lettura del corpo, è invece indispensabile, farsi guidare dal vedere, dall’intuizione, predisporsi con una condizione di apertura       alla ricezione passiva , non filtrata. E’ chiaro che noi stessi siamo dei filtri, predisposti alla ricezione di certe informazioni e non altre, ed alla loro interpretazione, è pur vero però che inconsciamente recepiamo il messaggio nella sua interezza. Quindi quanto più riusciamo ad aprirci alle nostre sensazioni, a quanto arriva dal nostro interno, tanto più riusciamo a vedere l’altro in modo significativo.


"Essere con" nel trattamento shiatsu

Nello shiatsu, l’ammonimento che più spesso l’allievo inesperto si sente indirizzare dal maestro è questo: “NON FARE!”. Durante il trattamento, l’operatore è continuamente sedotto dalla tentazione di voler “fare” e cioè agire per tramite della mente e perdere così il contatto profondo di sincronicità con il ricevente. Questo presuppone un approccio razionale, molto occidentale, per cui egli deve trovare un motivo logico e concreto per ogni strategia di azione adottata. In realtà, lo shiatsuka altro non deve “fare" che entrare in contatto profondo con il proprio cliente, che da solo accederà per il suo tramite alle proprie risorse di autoguarigione.

 

Il trattamento shiatsu mette in luce sia le alterazioni fisiche ed energetiche del ricevente che le sue anomalie nei rapporti di relazione sociale. Chi percepisce il trattamento shiatsu apportatore di benessere ed equilibrio quasi certamente avrà relazioni con l’ambiente gratificanti, chi non tollera il trattamento e percepisce dolore o fastidio avrà rapporti sociali ugualmente difficoltosi e conflittuali. Nello shiatsu, con la relazione attivata per mezzo del tatto, si stabilisce tra le due persone uno scambio, una reciproca comprensione e sensibilizzazione. Attraverso di esso sia il malessere fisico che il disagio emozionale vengono avvertiti in via diretta e questa possibilità di recepire la disfunzione a cui il ricevente è soggetto lo rende cosciente e gli permette di accedere al proprio potere autorisanatore naturale. Risulta da ciò evidente che, al termine del trattamento, non sarà l’operatore shiatsu ad avere “fatto qualcosa”, ma il ricevente stesso, grazie alla relazione profonda con l’energia dell’operaratore, avrà contattato la propria energia che gli avrà fornito l’accesso alle proprie risorse di risanamento fisico, mentale ed emozionale.


Tarocchi: l'energia de Il Matto

Lo sai che in qualunque momento si può verificare un cambiamento di coscienza? Non sai che all'improvviso puoi cambiare la percezione che hai di te stesso?

A volte si crede che agire significhi avere successo rispetto a qualcun altro. Invece no: se vuoi agire nel mondo, devi far esplodere l'identità che ti è stata imposta, appiccicata addosso e che si rifiuta di cambiare!

Devi ampliare i tuoi limiti, all'infinito, senza posa...entra in contatto con te stesso...entra in trance!

Lasciati possedere da uno spirito più forte del tuo, da un'energia universale e impersonale.

Non si tratta di perdere la coscienza, ma di lasciar parlare la follia originale, sacra, che sta dentro di te!

Smetti di essere il testimone di te stesso, di osservarti, sii attore allo stato puro, un'entità in azione: la tua memoria smetterà di registrare i fatti, le parole ed i gesti che hai compiuto.

Fino ad ora hai vissuto sull'isola della ragione, trascurando le altre forze vive, le altre energie...ora il paesaggio di allarga....unisciti all'oceano dell'inconscio.

 

Allora sperimenterai uno stato di supercoscienza in cui non esistono fallimenti nè incidenti.

Non hai una concezione dello spazio, DIVENTI spazio. Non hai una concezione del tempo, SEI il fenomeno che arriva.

In questo stato di presenza estrema, ogni gesto, ogni azione sono perfetti.

Non puoi sbagliarti, non esistono un piano nè un'intenzione.

Esiste soltanto l'azione pura nell'eterno presente...


Il counselor e l'arte del "non fare"

Per il counselor non eccedere nel “fare” comprende il non sostituirsi al cliente, non proporre soluzioni, non dare consigli, non pretendere di risolvere in fretta il problema, non decidere i tempi ed i modi del cambiamento, ma piuttosto avere la forza di stare anche nella “non azione”, nell’osservare e nel pensare, senza farsi prendere dall’ansia del conseguimento del risultato e tollerare anche una situazione di non-soluzione.

E’ evidente che il reperimento di una soluzione non è di competenza del counselor, anzi se egli cedesse all’illusione di sapere cosa è oggettivamente giusto che il suo cliente faccia e gli fornisse una soluzione preconfezionata, non sarebbe certo un professionista efficace.

La soluzione ideale al problema del cliente non può mai essere omologata, standardizzata, ma al contrario deve scaturire da un processo di elaborazione interno molto personale.

Non è tanto significativo il problema in se stesso, ma il modo in cui la persona lo vive, lo affronta. Il percorso di counseling deve servire al cliente per esplorare in se stesso queste sue modalità di fronteggiamento ed interpretazione delle situazioni, in modo da verificarne l’efficacia e l’opportunità, per quindi migliorarle o trovarne di alternative.

L’obbiettivo dell’intervento di counseling diventa quindi non solo risolvere il problema ma, soprattutto, verificare la modalità tipicamente utilizzata dal cliente ed eventualmente cambiarla, anche perché si ha la tendenza a riproporre automaticamente la stessa risposta anche a situazioni diverse, che richiederebbero un approccio differente.


Perchè capita sempre a me???

La nostra funzione percettiva organizza gli elementi di uno stimolo secondo la legge della chiusura, per cui tendiamo a percepire come chiusa, completa anche un'immagine dai contorni non delimitati.

Allo stesso modo una situazione di vita inconclusa polarizza la nostra energia destinata appunto a completarla, rendendo la stessa energia indisponibile per altri scopi.

Il mancato completamento della situazione precedente comporta un ripresentarsi ripetitivo della stessa esperienza, anche in tempi e luoghi diversi e successivi, impedendoci così di entrare genuinamente ed efficacemente in contatto con il qui ed ora.

Quando ci accade di imbatterci sempre nelle medesime dinamiche o relazioni che invariabilmente "vanno a finire allo stesso modo" chiediamoci a quale esperienza originaria stiamo inconsciamente tentando di dare un compimento....


Sei anche tu un ruminante?

In ambito psicologico la "ruminazione" è un termine tecnico che indica un procedimento mentale in cui la persona, non riuscendo ad allontanarsi dai risultati a cui è giunto nell'analisi del suo problema, ripercorre all'infinito le stesse tappe del ragionamento, continuando a cogliere solo determinati aspetti del problema.

La ruminazione mentale si può rappresentare graficamente con un movimento circolare che passa sempre dai medesimi punti rimanendo su un piano orizzontale, mentre l'approfondimento della visione e dell'analisi del problema procede su un piano verticale.

Questo fenomeno è dovuto alla legge psicologica per cui quanto più siamo coinvolti affettivamente nella situazione, tanto meno possiamo disporre della nostra capacità di ragionare lucidamente.


Ascolto attivo: storiella zen

Una storia zen illustra in modo chiaro e divertente come talvolta i comunicanti rimangano talmente fissati ognuno nella propria interpretazione del mondo da fare fallire miseramente la comunicazione:

“Qualunque monaco girovago può fermarsi in un tempio Zen, a patto che sostenga con i preti del posto una discussione sul Buddismo e ne esca vittorioso. Se invece perde, deve andarsene via.

In un tempio delle regioni settentrionali del Giappone, vivevano due confratelli monaci. Il più anziano era istruito, ma il più giovane era sciocco e aveva un occhio solo.

Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio, invitandoli, secondo la norma, ad un dibattito sulla sublime dottrina. Il fratello più anziano, che quel giorno era affaticato dal molto studio, disse al più giovane di sostituirlo. “Vai tu e chiedigli il dialogo muto”, lo ammonì.

Così il giovane ed il forestiero andarono a sedersi nel tempio.

Poco dopo, il viaggiatore venne a cercare il fratello più anziano e gli disse: “ il tuo giovane fratello è un tipo straordinario! Mi ha battuto”.

“Riferiscimi il vostro dialogo!” disse il più anziano.

“Beh, - spiegò il viaggiatore – per prima cosa io ho alzato un dito, che rappresentava il Buddha, l’Illuminato. E lui ha alzato due dita, per dire Buddha ed il suo insegnamento. Io ho alzato tre dita, per rappresentare Buddha, il suo insegnamento ed i suoi seguaci, che vivono la vita armoniosa. Allora lui mi ha scosso il pugno davanti alla faccia, per mostrarmi che tutti e tre derivano da una sola realizzazione. Sicchè ha vinto ed io non ho nessun diritto di fermarmi”. E, detto questo, il girovago se ne andò.

“Dov’è quel tale?” domandò il monaco giovane, correndo dal fratello più anziano.

“Ho saputo che hai vinto il dibattito”.

“Io non ho vinto un bel niente! Voglio picchiare quell’individuo!”

“Raccontami la vostra discussione” lo pregò l’anziano.

“Accidenti, non appena mi ha visto, lui ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che ho un occhio solo. Dal momento che era un forestiero, ho pensato che dovevo essere cortese con lui ed ho alzato due dita, congratulandomi che avesse due occhi. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita, per dire che tra tutti e due avevamo soltanto tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per dargli un pugno, ma lui è scappato via e così è finita”:


Parla con me

L’atto di ascoltare, a differenza dell’udire, presuppone un’intenzione di accoglienza dell’altro ed una capacità di accostarsi al suo mondo con un interesse reale di incontro e condivisione. Nella nostra cultura l’ascolto non viene insegnato né nell’ambito famigliare né in quello scolastico, ma si dà semplicemente per scontato che sia una capacità che si acquisisce naturalmente. Già Plutarco, nell’Arte di ascoltare denunciava questa mancanza “I più invece, a quanto ci è dato di vedere, sbagliano, perché si esercitano nell’arte di dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare un discorso, ci sia bisogno di studio ed esercizio, ma che dall’ascolto, invece, possa trarre profitto anche chi vi si accosta in modo improvvisato”.

Il concetto di Hara

Secondo l’insegnamento giapponese, l'hara si trova nella regione dell’ombellico, e più esattamente un po’ al disotto. Ogni europeo sta in piedi in modo che, se ricevesse uno spintone all’improvviso da dietro, con ogni probabilità cadrebbe, mentre ad un giapponese risulterebbe molto più naturale mantenere l’equilibrio. Questa stabilità deriva dal fatto che per gli orientali il centro di gravità cade nella parte mediana del corpo, nell’hara appunto. Il ventre non è rientrato, ma lasciato libero ed è messo in risalto da una lieve tensione. Le spalle non sono rialzate, ma abbandonate, però il torso è saldo. Questa postura verticale non è dovuta ad un tenersi su forzatamente, ma alla presenza di un asse avente una salda base, tanto da tener dritto il corpo in via naturale. Può essere utile richiamare alla mente le immagini della donna giapponese alla cerimonia del the, della geisha che canta, del samurai, del monaco in meditazione, del lottatore di sumo: siano essi seduti o in piedi, sono quasi i simboli di una “presenza”, una forza raccolta, ma pronta a manifestarsi. E come seggono o stanno, così camminano, ballano, lottano, tirano di scherma: nel fondo sono immobili perché ogni loro movimento è ancorato in un centro da cui traggono sia la forza, che è la sua misura e la sua direzione. Tale centro è l’hara.

Il counselor e l'arte di "rovesciare l'imbuto"

Una delle peculiarità dell'incontro tra counselor e cliente, è l'azione di apertura alla complessità proposta dal professionista.

Il cliente spesso arriva al colloquio con una storia, un PROBLEMA, la cui narrazione (compresa quella che il soggetto fa a se stesso) si è ormai irrigidita in una catena a maglie molto strette di spiegazioni causa-effetto. Egli ha già filtrato, selezionato, interpretato tutta una serie di elementi per cui ciò che ne risulta è una versione ridotta e preconfezionata della situazione.

Andolfi ha spiegato questo movimento attraverso l'immagine dell'imbuto: la molteplicità degli aspetti in gioco passa attraverso lo stretto canale dell'imbuto riducendosi ed impoverendosi sempre più, lasciando al cliente un esiguo margine di azione.

Il counselor deve padroneggiare l'arte di "capovolgere l'imbuto", raccogliere cioè i contenuti ridotti che il cliente gli offre e aprirli, con un movimento inverso ad imbuto rovesciato, a nuovi collegamenti, relazioni, dinamismi. Ciò permette di liberarsi dalla costrizione della logica lineare causa-effetto e di comprendere gli eventi attraverso un'ottica circolare, in cui la risposta retroagisce sull'informazione iniziale, modificandola.

Sarà così più facile smontare generalizzazioni, rinvigorire idee immobilizzate, abbandonare comportamenti stereotipati ed improduttivi ed accedere a nuove potenzialità e risorse.


La resilienza

La resilienza, in quanto capacità di fronteggiare situazioni di vita difficili, si caratterizza con:

  • la capacità di tener duro, di rimanere se stessi quando l'ambiente ci ostacola e continuare, malgrado i problemi, il nostro percorso umano (cf. il latino resilientia, il fatto di resiliare, di annullare l'effetto di urto, senza spezzarsi)
  • la capacità di rimbalzare, di rilanciarsi (cf. il latino resilire, che comprende l'attitudine ottimista di rimbalzare).

Per comprendere a fondo il concetto, è utile una metafora: visualizziamo l'immagine del calciatore che riceve il pallone, ed effettua lo "stop di petto". Prima di tutto egli ferma il pallone, trattenendo l'"urto", poi rilancia il gioco, riacquistando equilibrio e movimento.


"Essere" operatore shiatsu

Per lo shiatsu l’”essere” presuppone un contatto con l’hara, il centro vitale dell’uomo secondo lo zen. Ogniqualvolta lo shiatsuka si appresta ad effettuare un trattamento deve predisporsi per essere presente in “hara”. Anche se hara è un concetto

giapponese, esso ha un significato generale umano. L’hara corrisponde alla condizione in cui l’uomo ha ritrovato il proprio centro e lo attesta con il suo vivere.

 

Ma dove è situato questo centro? Secondo l’insegnamento giapponese, esso si trova nella regione dell’ombellico, e più esattamente un po’ al disotto. Ogni europeo sta in piedi in modo che, se ricevesse uno spintone all’improvviso da dietro, con ogni probabilità cadrebbe, mentre ad un giapponese risulterebbe molto più naturale mantenere l’equilibrio. Questa stabilità deriva dal fatto che per gli orientali il centro di gravità cade nella parte mediana del corpo, nell’hara appunto. Il ventre non è rientrato, ma lasciato libero ed è messo in risalto da una lieve tensione. Le spalle non sono rialzate, ma abbandonate, però il torso è saldo. Questa postura verticale non è dovuta ad un tenersi su forzatamente, ma alla presenza di un asse avente una salda base, tanto da tener dritto il corpo in via naturale. Può essere utile richiamare alla mente le immagini della donna giapponese alla cerimonia del the, della geisha che canta, del samurai, del monaco in meditazione, del lottatore di sumo: siano essi seduti o in piedi, sono quasi i simboli di una “presenza”, una forza raccolta, ma pronta a manifestarsi. E come seggono o stanno, così camminano, ballano, lottano, tirano di scherma: nel fondo sono immobili perché ogni loro movimento è ancorato in un centro da cui traggono sia la forza, che è la sua misura e la sua direzione. Tale centro è l’hara.


"Essere" counselor

L’essere counselor, così come l’essere operatore shiatsu non può prescindere da un “essere” persona, che tramite un percorso interiore di crescita, ha raggiunto una buona dose di conoscenza di sé. “Conosci te stesso” era scritto sul tempio di Apollo a Delfi e l’invito è rimbalzato fino ai giorni nostri.  Il trovare una risposta alla domanda “chi sono io?” continua a costituire la sfida per chi vuol trovare un senso più profondo alla propria esistenza ed allineare il proprio progetto di vita con la spinta vitale che sgorga dalla nostra vera essenza. Ciò che oggi in psicologia viene indicata come “crescita personale”, altro non è che porsi ed affrontare quella domanda, portandosela con sé lungo il percorso della vita, prestando una maggiore consapevolezza alle nostre scelte, comportamenti, relazioni, pensieri.